Una luce molto brillante costruita su un contrasto con uno sfondo cupo segue i personaggi, con un effetto aumentato da un trucco bianco molto acceso, di sapore mimico e seicentesco: El avaro di Molière, adattato da Jorge Lavelli e José Ramón Fernández, si presenta con l'allestimento deciso e di non certa ambientazione di Ricardo Sánchez Cuerda (scenografo de La Partenope di Tambascio del Festival 2009), con elementi semoventi di 6 porte ed un ingresso che si compongono e scompongono, mantenendo sempre in vista la loro essenza di apertura improvvisa ad ingressi e sorprese, che si confanno ad un testo in cui si susseguono soprattutto scambi di battute e ritmo veloce degli eventi, e pochi momenti di riflessione.
Dietro quelle porte, sugli usci e perfino sopra di esse, non solo Arpagone ma l'intera serie di personaggi si spiano, tramano ed appaiono coinvolti in un'inestricata alternanza di vizi, dall'ipocrisia di Valerio all'avidità di Frosina e Saetta, non risparmiando nemmeno Cleante e quel Mastro Giacomo che apparentemente tenta di ricondurlo alla ragione (come accade in più di una commedia di Molière), ma che è comunque spinto da un misto di pavidità ed invidia.
Tutto gira intorno al dio denaro, un dio invisibile e perfino nascosto fisicamente, sottoterra nel giardino, capace di generare in Arpagone una idolatria tale da meritarsi l'unica scena psicologicamente d'effetto, alla fine del quarto atto, quando parlando nel buio si esprime come un innamorato (“mon pauvre argent, mon pauvre argent, mon cher ami, on m'a privé de toi; j'ai perdu mon support, ma consolation, ma joie, tout est fini pour moi, et je n'ai plus que faire au monde. Sans toi, il m'est impossible de vivre...”), e rivolgendosi all'altro buio, quello della platea, chiede di essere "resuscitato".
In quello che corrisponderebbe al quinto atto, le luci si fanno quasi abbaglianti, a supporto di un deus ex machina volutamente consolatorio ed esageratamente stucchevole, come Molière cominciò a volere già nel Tartuffe, con quelle soluzioni ardite di personaggi ritrovatisi a sorpresa dopo molti anni, all'interno di un canone che ai nostri tempi corrisponde perfino ad un codice di massa da Carramba, che sorpresa!
La produzione esprime una buona prova di forza complessiva, ed a partire da Juan Luis Gallardo, gli attori si esprimono con convinzione e con un ritmo preciso, e tuttavia rimaniamo delusi per la scelta di un Arpagone vigoroso e quasi soltanto irascibile, e non piuttosto viscido, gretto, subdolo come un Mario Scaccia, o come sarebbe stato possibile con una lettura più vicina a quell'esprit de jouer, quel senso delle simmetrie e meccanizzazioni ereditato dai giochi della Commedia dell'Arte e dagli equivoci che Jean Baptiste Poquelin, detto Molière, in occasione di questa commedia aveva tratto perfino da Plauto, ed il risultato è stato quello di riscuotere magari un certo successo, ma non più di qualche sorriso.